“La prima molecola” è l’opera di Allegra Corbo che nasce con il coinvolgimento degli ospiti della casa di riposo Padre Bambozzi di Osimo.  Il progetto è iniziato lo scorso autunno con un workshop tenuto dall’artista, durante il quale gli anziani, alcuni ultracentenari, hanno fatto riemergere le proprie memorie “verdi” (i giardini e orti dell’infanzia, gli alberi dai quali mangiavano i frutti, i fiori dell’amato) e le hanno restituite con varie tecniche artistiche (disegno, acquerello, cut-out, stampa blockprint). Dopo il lockdown, in agosto, l’artista ha realizzato un’opera murale riproducendo quelle immagini in un collage immaginifico, un giardino visionario dove la Natura si incontra con la rimembranza. L’opera si ispira ai cut-outs di Matisse, ultimi lavori realizzati dal maestro francese quando una malattia limitò la sua mobilità fisica. L’intervento nasce da un progetto di PopUp Studio in collaborazione con l’artista e con il supporto della Fondazione Padre Bambozzi.

 Fondazione Bambozzi, casa di riposo. Via Matteotti 2, Osimo

 

“Ho deciso di scriverti in prima persona, sperando di tagliare corto la falsa neutralità di chi scrive a proposito di qualcosa che in fondo riconosce come una parte di sé – come guardarsi ad uno specchio che riflette quello che non ci si spiega. Non è facile dirti come mi veda riflesso in quello che fai, perché la natura che rappresenti è fatta di sensazioni senza verbo, che echeggiano quello che dentro ognuno di noi resta irrappresentabile. Ma nonostante questo risponde ad un istinto primordiale verso qualcosa che lo contenga e lo racconti. Cose che avrebbero diritto al silenzio, ma a cui non riusciamo a garantiglierlo.

I tuoi diagrammi, le tue costruzioni, espongono un sistema che parla simultaneamente di sopravvivenza e di crescita. Negli anni ho imparato ad aggrapparmici per la vita, e al contempo ad utilizzarli come strumenti per la navigazione nei recessi dell’anima. In fondo le anime nostre – tutte – sono affette dalla stessa inquietudine, e forse quello che le differenzia sono solo i tempi e le modalità a cui tale irrequietezza viene dedicata. Per te non credo si sia mai trattato di avere scelta, e questo in maniera perversa mi ha sempre dato un po di conforto. Mal comune mezzo gaudio.

Fare arte come la fai tu, per come la vedo io, è in primis un cercare di venire a patti con le fattualità del “danno”: EccoCi. EccoLo. Una volta che questo primo passo viene intrapreso, componi le carte che espongono un piano, un percorso. Proponi una strada bendata, come se guidata da voci. In questo senso nel tuo lavoro ho sempre riconosciuto qualcosa di utilitario, come se la chiave del tuo immaginario fosse un dispositivo predisposto all’uso, o un manuale che illustra come “si funziona”. Il tuo ricorrere a riferimenti scientifici – a certi riferimenti scientifici – sono autoesplicativi: tubi, cordoni ombelicali, canali uterini, organi immaginari o reali che si arrangiano in mandala, in incantesimi con i quali racconti come si diventa, ogni volta con qualcosa di aggiunto o di detratto, auspicando armonia costi quel che costi. Hai oscillato dalla più estrema intimità e riservatezza – quasi reclusione – fino alle performance, festival, momenti di grande collettività, in cui riesci a metterti in gioco di fronte a pubblici spesso distanti anni luce da ciò che convenzionalmente consideriamo gli spazi e le audience dell’arte. Ma è proprio in questa distanza – nello sfruttare la tua condizione aliena nel mondo che ci circonda ogni giorno – che riesci a sintetizzare il potere olistico dell’arte, celebrandola come quello che rende questo posto abitabile.

Ed è sempre sotto questa veste di esploratrice di altri posti – altre condizioni – che anche il tuo ultimo progetto alla Casa di Riposo Bambozzi viene a manifestarsi. Questa volta è il turno di anziani a diversi stadi della loro tarda esistenza, accolti in uno spazio fisico marcato come spesso accade dalla genericità – una sala d’attesa, anticamera a quello che forse sarà un nuovo giorno. Il processo e’ stato a parole semplice: immagini di un erbario tratto dalla memoria degli ospiti, riprodotti in scala sulle pareti della sala comunitaria. Linee esitanti – più per regresso che non per paura o imprecisione – dalla cima fino alle loro radici carpite, una fragilità che con la tecnica del ritaglio di carta e collage sei riuscita meglio che con la pittura a mantenere e rispettare. Li guardo come si guardano ritratti di vite, precari e monumentali, come le anime di ognuno dei loro autori originali sospesi a mezz’aria, elevati a qualcosa che “l’altro” dell’arte sa restituire, a noi tutti, accompagnandoci nel viaggio. Con sguardi, forme, gesti, colori, composizioni e sovrapposizioni, è come se raccontassi di una rinascita – diversi, degni di cura, fragili e spesso dall’aspetto quasi convalescente, ma con una forza che viene dal riconoscersi anche negli aspetti più penosi – il percorso che Joseph Beuys descrive dalla ferita all’arma.

Nel tempo ti ho osservato affilare le tue armi, distillando la tua “scienza’ come una pratica di Fede. Nel libro “Un punto di approdo” lo scrittore Isham Matar parla di questa espressione di fede – tipica dell’Amore e dell’Arte – come di un complemento essenziale per nostro funzionamento, in faccia alla nostra sempre inadeguata conoscenza, al nostro limitato sapere. Imparare a vivere con l’inspiegabile – dandogli un volto emotivo, una forma – e dotarlo di un linguaggio tutto suo, fatto di errore, esperienza, ricerca e curiosità, dubbio e inevitabilità, di ambivalenza e certezza – è il lavoro del lavoro.”

Testo di Enrico David