Cuniculus in fabula
Andreas Flevin
La pelle è un vestito che ci portiamo addosso da quando siamo nati e continuiamo a tenerci perché non abbiamo ricambi.
E’ così che ci s’inizia a corrompere, a puzzare, a sformarsi e a non somigliare più a quella creatura bella e buona che eravamo tanti anni fa.
Le figure nate dal personalissimo immaginario di Elena Rapa, è proprio a questo processo di degradazione che sono sottoposte da tempi indeterminabili, messe alla prova dal confronto con la vita in sé e da quello con gli altri esseri viventi.
Sono le figure arrese davanti all’evidenza che se la possibilità di un’elevazione esiste, o quanto meno di riscatto, probabilmente non è nella terra in cui vivono e soprattutto non tra i propri simili.
Mostri dall’animo buono, plasmati dall’ambientazione sino a trasformarsi in sorte di animali, a rivelare il proprio ruolo di vittima indifesa, di bambola di pezza in balia dei propri aguzzini.
Qui nasce però un conflitto: diventare animali, significa anche far emergere il proprio lato oscuro e brutale; ed è così che queste figure snaturate diventano i tiranni di sé stessi e si perseguitano da sole.
Forse è proprio questa la loro condanna: quella di non perdere il vizio della malvagità anche se lo vorrebbero; di non avere una pelle di ricambio e di essere plagiati da sé stessi, per il fatto di esistere.
In questa specie di girone dantesco, in cui la punizione è divenuta un dato di fatto con il quale confrontarsi quotidianamente, con cinismo e ironia, le creature di Elena Rapa che al buio sbattono contro sé stesse, uno spiraglio di luce – chissà perché – continuano a cercarlo.
Anche illudersi è un vizio che non si perde facilmente.